Settembre 2004

 DOCUMENTO DI PROPOSTE AI MOVIMENTI, ALLE ASSOCIAZIONI E ALLE FORZE POLITICHE DEL CENTRO SINISTRA E AL  PRC PER LA DEFINIZIONE DEL PROGRAMMA ELETTORALE VERSO LE ELEZIONI REGIONALI DEL 2005.

 

Forum Regionale del Piemonte

 

PREMESSA   2

PACE E PARTECIPAZIONE: COSTRUIRE PERCORSI SOLIDALI E DEMOCRATICI 4

CRISI INDUSTRIALE DEL PIEMONTE   7

AGRICOLTURA   11

TRASPORTI - INQUINAMENTO ATTMOSFERICO E MOBILITA’ SOATENIBILE

 PER UNA NUOVA POLITICA SOCIO-SANITARIA IN PIEMONTE  18

SCUOLA e FORMAZIONE PROFESSIONALE   22

LAVORO E MERCATO DEL LAVORO   25

RIFIUTI COME RISORSA   27

ACQUA: PROBLEMI INTERNAZIONALI E DECISIONI LOCALI. 29

 

PREMESSA

Questo documento del Forum Regionale del Piemonte, oltre a rappresentare un merito programmatico sulle future scadenze politiche nella nostra regione,  rappresenta  una  scelta politica di  continuità, di impegno e di azione politica propria ed originale, fin già dalla nascita, del Forum piemontese.

Le proposte contenute in questo documento sono frutto di una esperienza di impegno politico, sociale e di elaborazione, cresciuto anche attraverso seminari sui temi che vengono qui trattati, nella realtà politica, istituzionale, sociale e dei luoghi di lavoro nel nostro territorio.

I temi qui elencati non vogliono essere  esaustivi di tutte le problematiche politiche e sociali che coinvolgono la regione, tali temi delle priorità  sono il frutto di una elaborazione collettiva,  realizzata dalle forze che compongono il Forum.

Le proposte qui contenute sono aperte al contributo delle forze politiche, delle organizzazioni, associazioni e movimenti.

Il Forum stesso si farà promotore di iniziative autonome di dibattiti pubblici con l’espressione della realtà politica e sociale presente sul territorio, per realizzare un ampio confronto politico, e per raccogliere contributi e suggerimenti.

Tale documento sarà quindi inviato a tutte le organizzazioni, associazioni e movimenti del mondo del lavoro e impegnate nel sociale, alle forze politiche che hanno partecipato al Forum nazionale,   ai partiti regionali del centro sinistra e del PRC del Piemonte, ai quali il Forum richiede un confronto ed una consultazione.

La proposta conclusiva che si determinerà, attraverso la partecipazione democratica, impegnerà i soggetti politici, le  esperienze istituzionali e sociali, che compongono il Forum, a sostenerle nel confronto con le forze politiche regionali impegnate alla definizione del programma, per conquistare il governo della regione.

Il Forum quindi richiede alle stesse forze politiche del centro sinistra e del PRC di organizzare, per la realizzazione del programma stesso, una reale consultazione, e un’ampia partecipazione democratica delle realtà sociali, dei lavoratori e lavoratrici e dei cittadini.

L’alternativa al Governo Regionale di centro destra, per essere possibile, richiede una svolta profonda, nei contenuti politici-programmatici, tale da rappresentare una netta discontinuità con la politica  del centro destra di Ghigo.

Per conquistare il consenso dei cittadini, dei lavoratori e delle lavoratrici, le proposte programmatiche, per il ruolo della regione sul piano internazionale, istituzionale, culturale ed economico-sociale, devono essere chiare e credibili  nel rafforzare il ruolo dell' autonomia regionale e degli enti locali; per questo occorre una visione ed un radicamento nazionale nei principi costituzionali, a partire dalla difesa della democrazia e di una reale partecipazione, con al centro il lavoro, l’ambiente e lo sviluppo dello stato sociale e della solidarietà.

Centrale sarà quindi la parte propositiva ed innovativa del programma elettorale. La chiarezza e la coerenza necessaria richiede inoltre di definire quali sono le leggi e i provvedimenti regionali, attuati in questi anni dal governo Ghigo, che vanno abrogati, e quelli che vanno modificati (esempio sulla scuola).

Le linee programmatiche qui proposte: pace e partecipazione, con la costruzione di percorsi solidali e democratici; quale agricoltura per un futuro possibile; mercato del lavoro; la crisi industriale; i trasporti; la sanità; la scuola; i rifiuti; l’acqua; la difesa della natura, contengono un collante basato su due presupposti.

Oggi tutti ci troviamo, nel mondo occidentale, immersi in un mercato libero da ogni vincolo, che vuole ridurre uomini e donne a mera forza lavoro, strumento, tra gli altri, del processo produttivo, cioè semplici merci per la produzione di merci.

La globalizzazione non è scaturita dal nulla, ma serve agli Stati Uniti ed alle multinazionali per affermare il proprio modo di concepire il rapporto con il mondo: mercato libero e mondiale, all’interno del quale vige sostanzialmente la legge del più forte (anche in questo c’è il significato della guerra). La cultura americana impegnata sull’individualismo e sulla lotta per l’affermazione personale, senza vincoli, ha permeato significativamente anche l’Europa. Per realizzare questo, occorreva che il lavoro ed i lavoratori non fossero più al centro del processo di sviluppo, e che non ci fosse più un soggetto in grado di rappresentarlo.

Le guerre, lo smantellamento dello stato sociale, l’attacco ai diritti dei lavoratori, l’assenza di una legge sulla rappresentanza, le forme di liberalizzazione, di flessibilità-precarietà, con in ultimo la legge 30, per l’appunto: le scelte del Governo del nostro paese sono questo modello di globalizzazione, in alcun modo condivisibile e contro il quale  continueremo a lottare.

 

2) L’impegno nostro contro il terrorismo non solo è un fatto senza indugio alcuno ed è “a       prescindere”, così come non solo siamo altresì contro ogni guerra,  ovvero  vogliamo la  pace, che rappresenta per noi un’idea, una politica,  un altro modello di sviluppo economico e sociale, basato sull’economia solidale, sui diritti, la partecipazione e la democrazia, gli scambi uguali e non ineguali, la difesa della natura e dell’ambiente, l’autodeterminazione dei popoli, cioè vogliamo un mondo opposto a quello determinato dalla guerra.

Questa scelta è per noi del Forum un “unicum”, cioè un centro motore che, nel mettere insieme le conoscenze positive, scientifiche e della ricerca, può generare proposte di sviluppo, di investimenti nella ricerca scientifica e di base, nello sviluppo industriale e dei servizi, della cultura e del tempo libero, con una capacità e potenzialità di innovazione tecnologica,  che risponda alla domanda di occupazione e di inclusione del lavoro non precario e di una stato sociale con al centro la dignità della persona e non la logica del mercato senza vincoli, ovvero di questo capitalismo dominante.

 

PACE E PARTECIPAZIONE: COSTRUIRE PERCORSI SOLIDALI E DEMOCRATICI

Il tempo che stiamo vivendo si caratterizza attraverso un vero e proprio salto di qualità negativo sul terreno dei rapporti internazionali. Sempre di più, infatti, l’uso della guerra diventa “pratica comune”. La crisi della politica, come elemento capace di prevenire, tra alterne vicende, i conflitti, è sotto gli occhi di tutti: un intero paradigma, che durava da più di quattrocento anni, è oggi sotto scacco. Gli aggressivi processi di globalizzazione rendono la guerra una sorta di estremo elemento ordinatore. La guerra non è più, insomma, la “continuazione della politica con altri mezzi”, semplicemente essa è, oggi, la politica.  Premesso che il terrorismo è figlio di un progetto politico autonomo non meccanicamente legato alla guerra, oggi, però, ci trova di fronte ad una spirale perversa, all’interno della quale la guerra ed il terrorismo si alimentano e si giustificano a vicenda.

Un nuovo concetto di “limite” è stato raggiunto attraverso diversi argomenti. In primo luogo un argomento tecnologico. Le possibili tecnologie distruttive, sempre più sofisticate, miniaturizzabili, trasportabili, non sono più solo appannaggio di chi detiene l’”uso legittimo della forza”.

In secondo luogo l’uomo ha scoperto la sua debolezza, la sua ontologica fragilità. Da Hiroshima in avanti questa consapevolezza si è accresciuta, ed oggi la consapevolezza di poter arrivare ad un momento di totale autodistruzione è tristemente presente.

In terzo luogo, con il dispiegarsi pieno della globalizzazione attraverso la cancellazione dello spazio, anche la geopolitica tradizionale va in crisi. Un avvenimento negativo, che accade a migliaia di chilometri di distanza, può avere effetti immediati qui ed ora.

Di fronte a questo scenario, che qualcuno ha definito come società del rischio, l’intera umanità si trova di fronte alla concreta necessità di sviluppare alternative credibili, in grado di dare risposte agli enormi problemi sociali, economici, politici e di rapporti globali, anche per evitare l’insidiosissimo terreno dello scontro di civiltà.

Una strategia di rimessa a punto di principi e pratiche politiche, in questo senso, si deve avvalere di una serie di iniziative articolate, in cui ognuno, facendo la sua parte, contribuisce alla ricostruzione di un paradigma di pace complessivo. Da questo punto di vista gli enti locali possono ricoprire un ruolo decisivo.

La regione deve riconoscere nella pace un diritto fondamentale dei popoli e di ogni individuo, in coerenza con le norme, le dichiarazioni internazionali ed i principi costituzionali, che sanciscono il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e mezzo di risoluzione delle controversie.

Su questa base va avviata un’attenta ricognizione per:

avviare una riflessione sulle responsabilità e gli strumenti di Regione ed Enti Locali nella costruzione della pace sul proprio territorio;

riflettere sul ruolo delle città (e delle Province) nell’era della globalizzazione, per una crescita della democrazia internazionale;

capire come rafforzare la struttura politica ed operativa del Coordinamento nazionale degli Enti Locali per la pace;

capire come rafforzare il rapporto originale tra istituzioni e movimenti, sviluppando un reciproco e proficuo riconoscimento, basato su autonomia e collaborazione, nella convinzione che occorra una diplomazia dei popoli e delle società civile accanto a quella degli Stati.

La Regione ha dunque il compito di definire ruolo, strumenti e programma di lavoro per promuovere la pace nel mondo.

In linea di principio è possibile individuare alcune piste di intervento, su cui orientare l’attenzione. La Regione deve:

promuovere un’attività permanente di educazione e formazione alla pace ed ai diritti umani;

sostenere, coordinare e promuovere l’impegno per la pace dei singoli, associazioni ed istituzioni presenti sul territorio regionale;

sostenere l’organizzazione delle grandi manifestazioni di pace nazionali ed internazionali;

agire in prima persona e favorire la partecipazione delle comunità locali nelle realizzazioni di progetti di solidarietà e cooperazione internazionale;

realizzare un centro di informazione e documentazione sulla pace, collegato a tutte le banche dati nazionali, europee ed internazionali;

sviluppare relazioni e collaborazioni stabili con i più qualificati centri di ricerca,  nonché con i movimenti e le reti associative regionali, nazionali ed internazionali, che operano per la pace, i diritti umani e lo sviluppo umano in Europa, nel Mediterraneo e nel sistema delle Nazioni Unite;

agire per favorire politiche e scelte che portino verso il disarmo, ad iniziare dalle produzioni belliche presenti sul territorio piemontese. Programmare un’uscita da queste ultime in grado, attraverso processi graduali e partecipati, di alludere a diverse linee di impiego di lavoratori, tecnologie e saperi.

 

Come abbiamo visto, percorsi di pace si possono e si debbono costruire all’interno di un rinnovato spirito partecipativo. La partecipazione è oggi l’unico antidoto all’ulteriore restringimento degli spazi di democrazia: in questi ultimi anni tali spazi si sono ridotti a seguito di note scelte (politiche, economiche, istituzionali), che hanno portato la politica a produrre semplicemente “norme e normalità”. Una società complessa ha invece bisogno di spazi pubblici adeguati alla discussione dei suoi destini.

Occorre impegnarsi nella ricostruzione dello spazio pubblico, andando verso il superamento della logica della rappresentanza, definita una tantum, al momento del voto, andando verso pratiche di partecipazione e democrazia diretta. Ciò può produrre politiche pubbliche più efficaci nei confronti di diversi soggetti (in particolare quelli deboli sottorappresentati nei luoghi di decisione), coinvolgendoli direttamente nelle politiche che li riguardano. Il coinvolgimento di una maggiore pluralità di soggetti costituisce, inoltre, un’occasione per ampliare la conoscenza del locale, acquisendo rappresentazioni dei problemi, che difficilmente possono essere interpretate attraverso mediazioni tecnico-scientifiche o politico-burocratiche.

Vanno dunque apprezzate ed incentivate tutte le strutture di consultazione, concertazione e decisione, che affiancano le istituzioni “tradizionali” e la loro struttura elettiva. Esse costituiscono una utile forma intermedia fra la democrazia delegata e la democrazia diretta, e devono funzionare con continuità, accompagnando l’intero processo di gestione di piani, politiche e progetti.

Pace e nuovi diritti

Non si può parlare di pace senza mettere al centro dell’impegno politico e sociale i diritti. Il concetto di diritti, come ha sottolineato Norberto Bobbio in uno dei suoi ultimi saggi, si è progressivamente allargato, comprendendo, al proprio interno, le donne, i neri, gli emarginati di sempre, fino a comprendere, recentemente, anche gli animali. Come un sasso gettato in uno stagno, la sfera dei diritti ha finito con l’includere gli appartenenti al sesso escluso, alle razze escluse, ed ora abbraccia finalmente anche le altre specie, finora mai considerate possibili soggetti di diritto. Questo non significa che  il processo di emancipazione sia concluso: il cammino per raggiungere una piena parità e una reale tutela dei diritti  per le donne, i neri o per tutti gli altri soggetti umani è ancora lungo, nel mondo ma anche nella nostra civile società. Tuttavia questo non ci esime dall’attivarci, affinché si cominci a ragionare sulla questione dei diritti animali, esseri senzienti, capaci di soffrire e degni, per questo, della nostra attenzione e del nostro rispetto. La nostra società sta lentamente maturando una nuova sensibilità verso questi temi, i tempi sono maturi per prendere in considerazione, pur con tutta la gradualità e la mediazione tipica dei tempi della politica, questa finalità nel corso dell’attività legislativa e di governo. Anche il nuovo Statuto del Piemonte ha accolto il principio della difesa dei diritti degli animali. Ora si tratta di lavorare, per evitare che questa rimanga una semplice dichiarazione d’intenti.

Gli ambiti di intervento sono tanti, perché tante sono le attività umane, nelle quali gli animali sono coinvolti a vario titolo. Il futuro governo di centro sinistra dovrà, pertanto, mettere in agenda leggi, che abbiano il chiaro fine di tutelare il benessere degli animali, definendo precisi obblighi per chi li detiene.

 

 CRISI INDUSTRIALE DEL PIEMONTE

Considerazioni preliminari

Tutti i punti di forza dello sviluppo industriale della Regione sono in crisi da anni.

Le ragioni sono molteplici, ma l’aspetto più evidente è l’incapacità di reggere ai processi di globalizzazione, che hanno interessato l’economia in questo ultimo decennio, mentre i tentativi di delocalizzazione hanno solo avuto effetti negativi. Trasferimento all’estero di tecnologie e di produzioni e ristrutturazioni produttive, volte a ridurre i costi, hanno leso gravemente  le basi della struttura produttiva piemontese.

L’industria piemontese è ormai ad un bivio: o recupera capacità di ricerca, progettazione ed investimento, o diventerà parte di filiere produttive globali, che avranno poteri di decisione fuori dalla Regione e dall’Italia.

Ma mantenere capacità autonome di ideazione e di investimento comporta il mantenimento di adeguate quote produttive nella Regione: il distretto laniero di Biella non reggerà, senza assumere una funzione di eccellenza in Europa, nel campo tessile; la produzione di autovetture non reggerà, senza adeguate scelte di qualificazione del prodotto e di localizzazione di una quota di investimenti nella produzione a Torino.

La perdita di know how rischia di escludere il nostro paese dalla possibilità di elaborare e di realizzare nuove linee di intervento, capaci di rispondere, in modo positivo, ai crescenti problemi energetici ed ambientali, sia rivolti al risparmio energetico, che alla realizzazione di nuove possibilità di produzione e di approvvigionamento energetico, basato su nuove fonti, essenzialmente rinnovabili.

Senza un disegno di questo tipo, le risorse pubbliche – rilevanti ed esclusivamente rivolte a grandi opere funzionali al consumo - si rivolgeranno ancora di più ad investimenti energivori, ad elevato impatto ambientale, e rivolti, sempre di più, alle fasce più ricche della popolazione. Lo stesso uso del territorio, a partire dall’area metropolitana torinese, ha assunto ormai chiaramente questo indirizzo.

1. Ridare un ruolo al distretto tessile biellese

La contraddizione, presente nelle politiche industriali di “distretto”, ha favorito la delocalizzazione e la ristrutturazione di grandi gruppi tessili, specializzati nella produzione di prodotti pregiati, ed il decentramento di attività, fondate sul nanismo delle unità produttive. Si è persa così la dimensione di scala necessaria per politiche adeguate di ricerca ed innovazione, di politiche di reperimento delle materie prime adeguate alla dimensione del mercato mondiale e di politiche di marketing all’altezza della qualità dei prodotti, che avevano caratterizzato il polo biellese.

È ora necessario che la Regione Piemonte promuova, con il Governo centrale, un accordo di programma, che definisca azioni di sostegno alla qualificazione del distretto, favorendo una adeguata azione di innovazione, non solo nei processi di produzione, ma anche nell’azione a livello europeo e mondiale.

Biella, come polo europeo del tessile, può diventare una realtà, se l’Italia adotterà relazioni internazionali utili a favorire il rilancio del comparto laniero biellese, sia come luogo di produzione, che come centro di innovazione e di trasferimento tecnologico a livello perlomeno europeo.


2.  La difesa ed il rilancio del ciclo di produzione di autoveicoli

La crisi della Fiat rimane grave: l’attuale situazione finanziaria e produttiva non permette un futuro produttivo adeguato al consolidamento della presenza automobilistica a Torino ed in Italia.

Se Torino perde lo stabilimento della Fiat Mirafiori, come unità di produzione di motopropulsori e di autovetture, perderà progressivamente le funzioni di ricerca e di progettazione, sia quelle proprie che quelle che hanno favorito la nascita e lo sviluppo nei precedenti decenni.

Senza la produzione di Mirafiori, anche la produzione di componenti per auto via via si rilocalizzerà nei luoghi della nuova committenza, che già oggi rendono il comparto uno dei più importanti settori di esportazione per l’economia piemontese.

D’altra parte non è più sostenibile la produzione di auto e veicoli in termini tradizionali, e il rilancio dell’industria dei motori è di interesse generale, solo se si fa un netto salto verso la fine della dipendenza dal petrolio, verso motori  a bassissimo consumo e a emissioni minime, verso prodotti coerenti con una organizzazione della mobilità sostenibile e non individualistica.

Difesa e rilancio della produzione hanno senso quindi solo se strettamente legati al cambiamento del modo di concepire e di vivere la mobilità, innanzitutto per rispettare ( e poi superare) le direttive europee sulla qualità dell’aria.

Per queste ragioni sono condivisibili e vanno sostenute le proposte avanzate dai sindacati dei lavoratori metalmeccanici di Torino:

vanno mantenuti gli attuali livelli di occupazione, attraverso un’deguata presenza di produzioni;

Mirafiori deve continuare ad essere un’importante unità di produzione di motori e di cambi, confermandosi così uno dei non numerosi poli mondiali di ricerca, progettazione, ingegnerizzazione e realizzazione di motopropulsori;

a Mirafiori va consolidato un adeguato volume produttivo nel montaggio di autovetture, senza il quale si perderebbero le dimensioni di scala, per garantire la sopravvivenza dello stabilimento industriale.

L’amministrazione regionale piemontese dovrà farsi promotrice di un’azione politica incisiva nei confronti del Governo, delle banche e della Fiat, per un nuovo piano industriale, che si proponga di affrontare positivamente i problemi indicati

 

3.  Per un nuovo progetto energetico

Senza un’adeguata qualificazione produttiva nell’auto, esiste il rischio concreto del venir meno di una importante funzione, relativa alle prospettive energetiche.

Il progresso verso un’auto ecologica, almeno nei limiti dei futuri processi di combustione e dei processi di trattamento dei gas di scarico, impone un’evoluzione nella progettazione dei motori, che rischia di vedere estranea la Fiat nei prossimi anni, e forse per sempre.

Nel contempo, la situazione delle risorse petrolifere impone ulteriori evoluzioni verso un crescente risparmio energetico, aspetto che attiene alle tecnologie più che alle scelte individuali, pur importanti, da adottare nei consumi.

Per queste ragioni sarà opportuno operare per:

impegnare la Fiat in un progetto straordinario di ricerca nel settore motoristico, anche con l’ausilio di risorse pubbliche;

adottare un programma di riconversione negli impianti di produzione di energia termica ed elettrica, favorendo l’impiego, a partire dai luoghi pubblici, di impianti di microcogenerazione;

favorire la sostituzione dei tetti in amianto cemento, che sono ormai la fonte più importante di inquinamento da fibre di amianto dell’aria delle grandi città, con tetti al silicio per la produzione di energie dal solare.

 

Le PMI

Con particolare riferimento alla filiera dell’auto (ma non solo), occorre:

ricostruire un complessivo riposizionamento strategico, affrontando i necessari cambiamenti, per posizionarsi sulla via dell’innovazione e dello sviluppo del prodotto, una via basata su forme di cooperazione tra imprese, che spostino in avanti la catena del valore;

contribuire alla realizzazione di reti tra imprese, come avviene in altri paesi europei, anche per coprire, come fornitori di moduli e sistemi, nicchie di mercato;

intervenire per incentivare la realizzazione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro e di autonomia creativa, individuale/professionale, per incrementare la cooperazione nel lavoro e per realizzare forme di flessibilità operativa, che nel contempo stabilizzino la forza lavoro;

operare affinché negli ambienti lavorativi, con corrette relazioni industriali e di contrattazione, si realizzino reali forme di partecipazione, attraverso la rappresentanza dei lavoratori;  

lo sviluppo, nell’ambito di politiche pubbliche generali, di momenti formativi, rivolti a tutti i dipendenti, attraverso moduli mirati specifici a gruppi definiti;

realizzare ambienti lavorativi a basso profilo di rischio per la salute e la sicurezza.

 

E’ chiaro che tale processo (nella filiera automotive) non è teso a sostituire la presenza della FIAT con una ulteriore deindustrializzazione. Una tale crisi non permetterebbe una nuova industrializzazione della subfornitura, senza costi drammatici. Le politiche possono aiutare processi di internazionalizzazione necessari, ma la localizzazione non scompare e la subfornitura si addensa dove c’è un costruttore finale, come dimostra la stessa Germania.

Lo sviluppo e la qualificazione, in particolare della piccola impresa, anche rispetto a una fase acuta della crisi produttiva e di mercato, richiede poi una politica pubblica, sostenuta dalla Regione e dagli altri enti pubblici preposti, ed in convenzione col sistema bancario, finalizzata all’attivazione di crediti agevolati e ad un sostegno finanziario mirato alla realizzazione di progetti relativi all’innovazione tecnologica, organizzativa, per lo sviluppo locale e la salvaguardia dell’occupazione.  

 

Qualificare il comparto dell’elettronica, informatica e delle telecomunicazioni

La crescita del comparto ICT è stata, sino ad oggi, notevolmente influenzata dalle scelte industriali. Oggi ne subisce gli effetti della crisi.

Le azioni corsare, condotte prima nei confronti del gruppo Olivetti e poi della Telecom, hanno portato all’estinzione dello storico gruppo, ed allo spostamento a Milano dei centri direzionali di Telecom, Tim, Infostrada ed Omnitel.

Parallelamente i processi di terziarizzazione e di outsourcing in corso hanno favorito il nanismo delle unità produttive del settore.

Torino ed il Piemonte continuano ad essere un punto di eccellenza, almeno in Italia, nel comparto ICT, per questo vanno sostenute le iniziative tese a far meglio assumere una ipotesi di distretto del comparto, adottando le azioni di sostegno e di integrazione che saranno necessarie. Il CSI può continuare a svolgere un ruolo importante in questa direzione.

Così come va contrastata l’azione in corso di smembramento e depauperamento delle attività di  ricerca nelle telecomunicazioni, a partire dalle unità di ricerca, che hanno caratterizzato, nei decenni, il centro ricerca dello  Cselt, che oggi rischia di non avere un futuro.

Inoltre, come già hanno fatto la Regione Toscana ed altre importanti istituzioni locali in Europa, la Regione Piemonte può farsi promotrice di un progetto di utilizzo di software open source, come Linux, da parte degli Atenei, delle amministrazioni e dei servizi pubblici e delle imprese che ne saranno interessate.

 

5.  Difendere e valorizzare le attività culturali, l’editoria, l’emittenza pubblica

Torino ha avuto un ruolo importante nelle attività culturali italiane ed europee.

Oggi l’attività culturale è sempre più multimediale, eppure vanno garantite le presenze fondamentali nell’editoria come dei centri RAI che, tra l’altro, hanno garantito il crescere di notevoli attività nel territorio.

In particolare, vanno potenziate le attività della Rai, nella ricerca come nelle funzioni proprie dei centri di Torino: le attività educative e culturali, la qualificazione delle attività radiofoniche.

 

 

AGRICOLTURA 

Mentre nella regione si fa delle produzioni di qualità una etichetta che vuole caratterizzare il Piemonte, anche con iniziative come Sloow food, Salone del gusto e Terra Madre, incontro mondiale degli agricoltori, la maggior parte delle produzioni è indirizzata verso sistemi industrializzati.

Dati agricoltura Piemonte

Pil agricoltura 2,9 % del regionale; Pil settore agroindustriale , compresa agricoltura, 10%.

Il valore della produzione agricola ai prezzi base è stato (‘98) 6.423 miliardi di lire, cioè il 7,9% del nazionale, sesta in Italia dopo Lombardia, Emilia-Romagna,Veneto, Sicilia, Puglia.

Gli occupati (98) erano 77 mila unità, di cui 12.000 dipendenti, 48.000 uomini e 29.000 donne.

Il tasso d’occupazione è del 4,6% su una media nazionale del 7%, solo Asti e Cuneo sono sopra il 10%.

I cereali, ad esclusione del riso, si estendono per oltre 300.000 ettari (cioè quasi il 30 % della Sau) con una produzione di oltre 22 milioni di quintali. Il mais è il più diffuso, 170.000 ettari e 15 milioni di quintali. Il riso coinvolge 5.000 aziende, 111.358 ettari, pari a metà della nazionale, per una produzione di 6,8 milioni di quintali. Le viti si estendono su 57.000 ettari, con 34.701 aziende. La PLV è pari a circa 700 miliardi di lire all’anno.

 Le  misure di sostegno

Come noto, l’Unione europea sostiene le attività agricole in maniera più consistente con contributi per le coltivazioni ( esempio seminativi, prato, ecc.) e per le attività zootecniche, ad esempio per i bovini da carne, per  il latte, ecc.

Un’altra forma di sostegno arriva dalla Regione, che finanzia il Piano di Sviluppo Rurale.

In totale, nel quinquennio, la regione investirà 944 milioni di Euro

Le conseguenze

L'agricoltura attuale, industrializzata, prevede un uso intenso di prodotti chimici: in Piemonte, nel 1995, si usavano per la concimazione 78 kg. per ettaro di azoto e 45 di fosforo, su una media nazionale rispettivamente di 64 e 45. L'azoto nelle falde si trasforma in nitrati, presenti in regione, laddove è stato controllato, in quantità oscillante tra 50 e 80 mg per litro, quando, per la potabilità dell'acqua, si richiede un contenuto inferiore a 50. Quindi abbiamo già molte falde inquinate.

Come è logico aspettarsi, le sostanze chimiche usate finiscono sulle tavole dei consumatori, i dati del 2001 dimostrano questa ovvietà.

Un tale uso delle concimazioni chimiche induce aridificazione galoppante, pericolo di eutrofizzazione dei corsi d’acqua, la distruzione degli habitat e della fauna selvatica.

Poi vi è il problema dell’acqua. In Piemonte irrighiamo tra i 500 e i 600 ettari di terreno, quasi la metà di quanto coltivato, e la produzione ipotetica sarebbe sufficiente a sfamare oltre 10 milioni di persone; in realtà, dovendo alimentare un gran numero di animali, siamo costretti ad importare alcuni prodotti, a partire dai cereali.  Il 70% dell’acqua disponibile serve per le coltivazioni; ad esempio, una tonnellata di granella ne vuole più di mille di acqua.  Non serve più acqua, occorre ridiscutere le tipologie colturali.

Occorre poi ricordare che l’aumento dei costi per fitofarmaci, gasolio, mezzi meccanici e la diminuzione o la stabilità dei prezzi dei prodotti agricoli fanno diminuire la resa degli agricoltori, per cui le aziende piccole sono destinate  a chiudere. Questo è dimostrato dai dati ufficiali: il numero delle aziende si riduce,  -20,5% nel 2001, e aumenta l’incidenza delle aziende con almeno 20 ettari di Sau, cioè le aziende piccole sono acquisite da quelle più grandi, con diminuzione dei posti di lavoro.

           

Semi transgenici.

Un discorso a parte meritano gli Ogm. Nel prossimo futuro, ma già si sono avute delle avvisaglie nel 2003 e proprio in Piemonte, le produzioni industrializzate spingeranno verso le biotecnologie, cioè sementi geneticamente modificate, esattamente come già successo negli Stati Uniti. Questo darà un ulteriore impulso alla industrializzazione e all’estensione delle proprietà, perché aumenterà inevitabilmente i costi, come già dimostrato laddove si sono diffuse. E non si devono dimenticare tutti gli altri effetti negativi, come la diminuzione della biodiverstà delle specie colturali, l’aumento della presenza dei prodotti chimici, il rischio per la salute umana, il pericolo di ibridazione di tutte le specie simili a  quelle modificate, ecc.

Zootecnia intensiva

In Piemonte si allevavano, nel giugno 1999,  872.194 bovini in 25.350 allevamenti, 469 bufalini, 99.114 ovini, 58.596 caprini, 27.703 equini, 986.485 suini.

La zootecnia bovina ha un PLV pari a 1.466 miliardi di lire nel 1997, equivalente a un terzo del totale. La produzione del latte comprende 8.800 aziende, 300.000 capi in  totale, di cui 180.000 lattifere, per una quantità di circa 8,5 milioni di quintali all’anno. Le importazioni si aggirano intorno ai 230.00 capi all’anno. Le macellazioni sono di circa 400.000 unità all’anno, di cui 340.000 adulti.  L’allevamento suino ha circa 2.800 allevamenti per 963.000 capi.

Seguono altre tipologie di allevamento.

Anche il settore zootecnico si indirizza verso la spinta delle produzioni quantitative.

È significativa la percentuale di allevamenti da latte, con un terzo dei capi del totale allevato, dove si utilizza una razza, la frisona, che non è certo tipica, come testimonia il nome stesso, della nostra regione. La produzione del latte è eccedentaria rispetto alle quote stabilite  a livello europeo, e molte aziende sono ancora in attesa di sapere quanto e come dovranno restituire il surplus percepito.

La zootecnia intensiva genera lo squilibrio produttivo, in quanto stimola la produzione soprattutto del mais, ma, in parte, anche delle oleaginose, poichè i residui della lavorazione finiscono nell’alimentazione degli animali.

Un’altra  conseguenza dell’intensivizzazione è la ricerca della crescita rapida, anche ricorrendo all’uso di sostanze anabolizzanti. Queste suscitano grandi problemi, dal punto di vista sanitario, e diventa prioritario, a livello regionale, organizzare specifici programmi, per evitare questi abusi.

In conclusione

Mentre si pubblicizza che nel futuro l’agricoltura deve orientarsi verso produzioni di qualità, anche prevedendo la nascita di una nuova università privata, a Pollenzo, non ci sono indizi che siano in atto ripensamenti sulle scelte produttive. Nel futuro, presumibilmente, si continuerà sulla stessa strada: risorse pubbliche erogate per finanziare anche iniziative pubblicitarie a favore di un tipo di agricoltura, che però non viene realizzata sul campo.

Per un diverso indirizzo, alla ricerca di una vera qualità, intesa come riduzione dell’inquinamento, garanzia di maggiore sicurezza per i consumatori,  risparmio delle risorse e delle materie prime e, nel caso degli animali, miglioramento del loro benessere e delle condizioni in cui sono allevati, si deve puntare sull’agricoltura e la zootecnia biologica. Oltre a quanto detto, questi sistemi possono salvaguardare le specie animali e vegetali addomesticate e selvatiche.

Un terzo obiettivo ottenibile in questo modo è quello di salvaguardare l’occupazione e difendere anche le piccole proprietà. Le coltivazioni biologiche e tradizionali si prestano meglio di altre a questo scopo.

Come fare?

Uso fondi destinati all’agricoltura.

Gli indirizzi alternativi si possono incentivare e promuovere con l’utilizzo dei fondi di contribuzione, e si potrebbero anche contenere, con giuste politiche, i prezzi al dettaglio dei prodotti biologici, uno degli ostacoli, al momento attuale, che rendono difficile la loro diffusione.

Conversione delle colture. Questi obiettivi possono essere perseguiti, ponendosi un obiettivo annuo di conversione dei sistemi produttivi. Si può cioè prevedere che annualmente almeno una quota del 5% della superficie agricola debba essere incentivata alla conversione al biologico. Naturalmente, essendo sempre difficile la concretizzazione di un valore fisso, il limite sarà stabilito con un confronto con le parti sociali.

Legge per prodotti biologici. Inoltre si può pensare ad una legge che promuova i prodotti biologici nelle mense pubbliche, scuole, centri ospedalieri, ecc.

Corsi di formazione. Occorre inoltre dar vita a corsi di formazione, sia a livello scolastico, sia pubblico, per migliorare le conoscenze relative all’alimentazione, stante il fatto che le scelte individuali dei consumatori sono poi quelle che influenzano le linee produttive.

Ogm. Legge regionale. La regione può emanare una norma per impedire la coltivazione di semi geneticamente modificati. Ugualmente si può prevedere una legge per la diffusione di alimenti non modificati.

 

 

TRASPORTI - INQUINAMENTO ATMOSFERICO E MOBILITA’ SOSTENIBILE

Il settore trasporti è il principale settore economico dei paesi sviluppati, sia a livello di produzione dei mezzi, sia a livello di infrastrutture.

C’è sempre stato un forte intreccio tra questi due aspetti, ma ora è fortemente cresciuto; ormai ci troviamo di fronte al fatto che sono le esigenze del settore produttivo dei mezzi di trasporto a determinare le scelte infrastrutturali, mentre in passato vi era un condizionamento reciproco molto più forte.

Il secondo aspetto da sottolineare è una evoluzione delle infrastrutture (aeroporti, porti, strade, ferrovie etc), che tendono sempre più ad essere merci vere e proprie, che puntano ad espandere il proprio mercato ed a  crescere per una logica intrinseca al comparto delle aziende che “producono” infrastrutture.

Terzo fattore è il liberismo, il quale incide a vari livelli:

Con l’abolizione di ogni logica programmatoria, questo fa sì che i territori (paesi, regioni, città) entrino in competizione, sia per la collocazione di siti produttivi,. sia per la disponibilità ad ospitare infrastrutture, determinandone una moltiplicazione, un eccesso, in un certo senso una sovrapproduzione.

Per l’accettazione della logica del decentramento produttivo, della produzione diffusa sul territorio, secondo criteri socio economici (le condizioni del lavoro, dei lavoratori, della tassazione dei vincoli amministrativi e di legge etc.) e non strettamente tecnici.

Cresce il bisogno di infrastrutture, altrimenti il just in time entra in crisi, ma tutto il sistema di decentramento e delocalizzazione della produzione spinge in questa direzione.

In questo contesto il territorio è una risorsa da sfruttare, devastare, piegare alle esigenze di questo modello. I problemi creati da ostacoli naturali (montagne, fiumi, bracci di mare etc.), più che un freno, diventano un’occasione: costruire il ponte sullo stretto, il tunnel sotto la Manica, il tunnel in Val Susa è economicamente più interessante che non un’opera semplice, perché costa di più, cioè richiede maggiori risorse, investimenti, crea più domande nei settori che producono i “mezzi di produzione”, per creare l’infrastruttura (ma anche più domanda per gli studi tecnici). Creano perciò maggiori profitti. Resta il problema del finanziamento, che in genere alla fine è pubblico, e determina uno spostamento di risorse da altri settori, ma anche un incremento dentro al settore.

In questa comunicazione concentreremo la nostra attenzione sul settore ferroviario e dell’autotrasporto, avendo però ben presente che esiste un forte intreccio con il settore del trasporto aereo (aeroporti) e navale (porti), anche quando non sono presenti sul nostro territorio importanti strutture di questo genere. Il collegamento ferroviario con Malpensa e Genova è ben più importante di quello con Caselle.

Non siamo a conoscenza di studi o  progetti sulla navigabilità dei nostri fiumi. L’impressione è che il trasporto di merci sia calato rispetto ai secoli passati.

 

Trasporto su gomma:

È stato largamente favorito nel corso degli ultimi 60 anni in Italia ed in Piemonte, sia per il trasporto di merci, sia per il trasporto di persone. Dentro questo c’è poi la scelta di favorire il trasporto individuale rispetto a quello pubblico.

Questo fatto è accentuato dalla privatizzazione del settore pubblico, che è partito dal settore su gomma. Ciò determina sempre più un venire meno al diritto alla mobilità per ampie fette di popolazione, specie nelle zone montane e collinari, ma anche nelle località decentrate.

Questo problema è accentuato per le popolazioni anziane e i giovani, ed è una delle cause dello spopolamento delle valli (insieme al venire meno di altri servizi sociali quali sanità, istruzione etc.).

C’è un eccesso crescente di mezzi di trasporto (rispetto alle reali esigenze di mobilità), anche i singoli mezzi di trasporto sono “eccessivi” rispetto alle esigenze che dovrebbe soddisfare. Ciò determina il fatto che stanno fermi, occupano suolo, frenano i veicoli in movimento. C’è perciò un crescente bisogno di nuove strade e di luoghi in cui parcheggiare.

Un aspetto spesso sottovalutato è poi quello del rifiuto che questi mezzi provocano quando scadono e “vengono rottamati” (non è solo l’uso che si fa del mezzo a determinarne l’obsolescenza, la scadenza).

Questo sistema è in crisi per via del crescente inquinamento dell’aria, ma anche per l’occupazione del suolo, che lo rende perciò sempre più costoso, ma anche più lento.

Se il primo problema può essere affrontato dai produttori con la produzione di nuovi autopropulsori a minor impatto ambientale, il secondo è invece strutturale e crescente, e può essere affrontato solo con un diverso rapporto tra mezzi collettivi e mezzi individuali, e forse anche con una diversa disciplina rispetto alle caratteristiche tecniche complessive del mezzo (servono dei mostri enormi per portare i figli a scuola e fare shopping? È ancora tollerabile?)

Mentre c’è una crisi del settore del trasporto su gomma (basta frequentare gli snodi autostradali, le tangenziali per toccarlo con mano, ogni giorno), c’è un sottoutilizzo, una dismissione dei settori su rotaia. Il Piemonte aveva ed ha ancora una rete ferroviaria eccezionale, con grandi potenzialità.

Le scelte effettuate determinano un sottoutilizzo di questa rete, sia nel trasporto merci, sia in quello delle persone (in misura minore).

C’è una diminuzione di investimenti, che determina una rete meno efficiente, più pericolosa, c’è anche carenza e scarsa qualità dei vettori e delle carrozze. Problemi rispetto alla qualità della rete e dei mezzi derivano anche dalle scelte effettuate attraverso le esternalizzazioni; tali scelte provocano una minore qualità e quantità delle manutenzioni.

Una seria politica regionale non può non partire da questo, da una valorizzazione della rete esistente.

È l’opposto di quanto accaduto nel corso degli ultimi 10 – 15 anni.

In questo periodo è emersa e ha assunto un ruolo centrale la questione TAV, cioè di un vastissimo progetto per creare una serie di grandi infrastrutture europee. Scopo di queste era evidentemente quello di creare stimoli per il rilancio dell’economia oltre, ovviamente, a rispondere ad una serie di problemi di trasporto.

Per l’Italia e la nostra regione la TAV diventa l’opera infrastrutturale fondamentale. La dimensione del progetto determina una richiesta di ingenti risorse ferroviarie. Data la scarsità di risorse, questa scelta non poteva non essere conseguenza di risparmio su tutto il resto della rete ferroviaria.

Quindi si costruisce una grande opera, scarsamente connessa con la rete esistente e con il territorio, (la TAV serve a far passare merci e passeggeri sul territorio, non a servirlo) drenando risorse su di essa, a scapito di quello che noi pensiamo sia invece la priorità, cioè la rete locale.

I costi sono comunque sottostimati, il che fa sì che l’opera proceda lentamente, molto più lentamente del previsto, con seri dubbi sul fatto che, quando verrà ultimata, forse non avrà più l’utilità prevista.

Sono egualmente sottostimate le difficoltà tecniche, le quali determinano anch’esse l’allungamento dei tempi e un aumento dei costi, oltre ai disastri ambientali maggiori del previsto.

Al contrario vengono sovrastimati i benefici, la dimensione della potenziale domanda. Basti pensare all’Eurotunnel, o ancora, per restare più vicino a noi, al caso della Malpensa, dove, solo due o tre anni fa, si diceva che, senza terza pista, era impossibile rispondere alla domanda; ad oggi tale domanda non è aumentata,  bensì diminuita (a fronte invece di un impatto ambientale negativo dell’aeroporto ben superiore alle previsioni).

Sarebbe un esercizio utile fare una verifica sulle previsioni che i sostenitori della TAV facevano rispetto alle dinamiche dei traffici per gli anni 2000 – 2005. Questo elemento di sovrastima dei flussi balzerebbe agli occhi.

Allo stato attuale l’insieme di questi problemi devono portare ad un ripensamento  del progetto. Il rischio molto alto è di realizzare un’opera in tempi biblici, con continue interruzioni per mancanza di finanziamenti, senza adeguati criteri di sicurezza sull’opera stessa, e una totale mancanza di tutela del territorio.

In particolare per il collegamento con Lione e il terzo valico appenninico.

Tutto ciò al di là della devastazione dei progetti di vita di decine di migliaia di persone. Prima di affrontare questa questione democratica, occorre riflettere su alcune proposte di quanti ritengono indispensabile l’opera, ma pensano di mitigare l’impatto, per renderlo accettabile alle popolazioni, e per offrire loro una compensazione. Aggiungiamo poi la necessaria, indispensabile tutela della salute dei lavoratori e delle popolazioni. Su questo occorre massima chiarezza, se il territorio è fatto di rocce amiantifere, l’opera non va fatta, o non va fatta lì, non ci sono risposte tecniche, anche per i costi proibitivi che ciò comporterebbe, che permettano altre soluzioni a meno di raccontare panzane.

La questione dei costi si pone comunque, anche per quanto accennato prima, al di là della questione amianto.

Allo stato attuale non esiste infine un vero progetto (non si sa neanche se si faranno due tunnel o uno solo) e quindi non si conoscono i costi reali. Sappiamo tutti, tra l’altro, che le risorse disponibili sono scarse, e c’è una vera crisi finanziaria dello Stato, con necessità di tagli, che non potranno che frenare le grandi opere.

Dicevamo infine della questione democratica. Essa non può essere sottovalutata; non si può più ragionare nei termini che hanno portato allo sterminio delle popolazioni autoctone delle Americhe e dell’Australia.

La Valle di Susa non può essere spopolata con il trasferimento delle popolazioni, e non è accettabile realizzare un’opera così imponente senza il loro consenso.

D’altro canto la recente vicenda di Scanzano e di altri centri interessati a progetti di centrali elettriche, inceneritori, di discariche etc.dimostrano che ciò non è possibile, a meno che non si pensi di occupare militarmente la zona per anni, con notevoli conseguenze sui costi dell’opera e attuando lo spopolamento delle valli.

Ci sembra che discutere di questi problemi sia necessario, indispensabile, non rinviabile.

L’impatto negativo delle grandi opere sulla vita quotidiana è di fronte a noi con le opere in corso; a Torino sul passante, sulla metropolitana etc., o ancora di più sul tratto Torino Milano della TAV che comporta (ormai da anni e prevedibilmente ancora per altri) disagi fortissimi per centinaia di migliaia di persone.

L’impatto di un’opera gigantesca e complessa come il tunnel di oltre 50 km nella Val di Susa sarebbe di gran lunga più devastante e con tempi biblici.

Anche per tutto questo occorre ripartire da zero ed interrogarsi non solo sulla realizzabilità dell’opera, ma della sua necessità e centralità.

Proponiamo di farlo nel contesto delle necessità dell’insieme del Piemonte.

Per noi occorre invertire le priorità, che sono: la salvaguardia delle strutture già esistenti, delle reti, dei mezzi mobili, rendere cioè più confortevole ed agevole l’uso del mezzo pubblico collettivo. Sono molte le reti su cui intervenire: verso Aosta ed il Canavese, il ramo di Biella sud – ovest etc.

Favorire le interconnessioni per l’accesso alle aree metropolitane, ma anche una strutturazione degli orari e delle frequenze per favorire la competitività del settore pubblico e collettivo.

Per i collegamenti con l’Europa puntare in primo luogo al pieno utilizzo delle resti esistenti, su cui esistono sicuramente forti margini di miglioramento, accantonati in prospettiva della nuova grande opera.

Una maggiore attenzione alla valorizzazione delle infrastrutture esistenti richiede un diverso approccio con chi opera a questo scopo; il “core business” delle aziende pubbliche del trasporto diventano i settori dedicati alla manutenzione etc. ed invertire la tendenza alle esternalizzazioni.

Una diversa politica dei trasporti deve portare a minore inquinamento, risparmi energetici etc, anche a risparmi in infrastrutture all’interno dei centri urbani.

Questi risparmi devono essere conteggiati e valutati con trasferimento di risorse verso il settore del trasporto pubblico collettivo, favorendo una sua competitività, una sua accessibilità con tariffe competitive.

 

Disinquinamento atmosferico e mobilità sostenibile 

La Regione Piemonte ha decentrato alle Province compiti e responsabilità per quanto riguarda i programmi d’azione per il rispetto delle direttive europee sul disinquinamento, ma questa scelta è stata più di deresponsabilizzazione che di effettivo coinvolgimento. 

Nel panorama nazionale , nel poco che ancora si è fatto per riformare o almeno per “modernizzare”una realtà altamente inquinante di circolazione automobilistica, il Piemonte è rimasto indietro.   Persino le più banali facilitazioni per il metano sono state assunte.

tardivamente. E persino la Lombardia è apparsa – almeno sul piano dell’immagine – più impegnata, con  i primi blocchi del traffico varati da Formigoni. 

Facendo perno sull’area metropolitana torinese e sulle necessità/opportunità di favorire la conversione in senso ecologiche della produzione di motori, la Regione dovrà farsi protagonista di un piano straordinario di interventi a breve e medio termine.

Tra gli elementi di questo piano  ci dovranno essere

La riconversione a metano di tutti i mezzi pubblici ( bus e taxi) su gomma in tempi accelerati.

La semipedonalizzazione dei centri storici, con i necessari incrementi di servizio pubblico diversificato.   

La progressiva ma rapida esclusione dal traffico delle aree urbane  dei non catalizzati.

La limitazione del traffico dei Tir e dei camion tramite tassazione ecologica e altre limitazioni,     più severe per i veicoli più inquinanti. 

L’adozione di piani per la distribuzione delle merci per razionalizzare l’uso dei mezzi e per effettuarlo esclusivamente su mezzi elettrici  e a metano nelle aree più dense. 

L’adozione, con protocollo d’ intesa con province e comuni, ( ma eventualmente esercitando poteri sostitutivi)   di limitazioni sia programmate  che emergenziali del traffico nelle stagioni e nei momenti di maggior inquinamento.  

Più in generale la regione Piemonte dovrà assumere un ruolo atttivo per tentare di coordinare le regole e le misure antismog in tutta la Pianura Padana, la quale costituisce un unico bacino problematico.

Occorrerebbe che almeno le misure minime ( come ad esempio i giorni invernali di targhe alterne) fossero le stesse in tutte le regioni del Nord

 

 

 

PER UNA NUOVA POLITCA SOCIO-SANITARIA IN PIEMONTE

Dopo 26 anni dalla riforma sanitaria, che si è avviata con la Legge 833 del 1978, vi è la necessità, oggi, di riprendere e rilanciare gli elementi caratterizzanti di quella importante stagione di iniziativa e mobilitazione sui diritti sociali: la salute come valore universale, la centralità del sistema pubblico, la rilevanza dei bisogni dei cittadini.

E’ importante porlo oggi, che ci apprestiamo ad affrontare una importante competizione elettorale come quella delle regionali del 2005. Le problematiche inerenti la salute e la valenza dello Stato Sociale devono essere poste al centro del dibattito politico e dei programmi dell’insieme delle forze progressiste in Piemonte.

La fase è caratterizzata dalle politiche neoliberiste del Governo Berlusconi, che con la Legge 30/03, oltre a destrutturare il mercato del lavoro, rilancia l’attacco al contratto nazionale di lavoro e allo stesso ruolo di rappresentanza e di lotta del sindacato. Questo si intreccia con il tentativo di  privatizzare settori sempre più ampi del sistema dei servizi pubblici del nostro Paese.

Si vuole impoverire e dequalificare il Welfare,  per renderlo residuale, attraverso l’aumento degli spazi di incidenza del privato, e aumentando il peso della compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini.

Il tentativo è quello di superare il Servizio Sanitario Nazionale unico e universale, e prefigurare un doppio sistema di servizi: da una parte prestazioni di alta qualità per le fasce alte della popolazione, finanziate direttamente dai cittadini o tramite il sistema delle assicurazioni private, dall’altra servizi dequalificati e/o prettamente assistenziali, per i settori meno abbienti. Una sanità che cura le acuzie e un socio-assistenziale (i comuni) per le cronicità.

Per noi è chiaro, anche alla luce della crisi che la globalizzazione neoliberista sta conoscendo a livello internazionale, che lo Stato Sociale non è un peso da ridurre o smantellare, ma un’opportunità da valorizzare.

Nella competizione internazionale, la possibilità di reggere positivamente sui vari  mercati, non è più caratterizzata dalla centralità del solo costo del lavoro. Oggi incide fortemente la validità del sistema paese, le infrastrutture, le politiche ambientali, la ricerca, la formazione e, non per ultimi, la qualità del Welfare e la funzionalità del sistema dei servizi pubblici. L’esperienza concreta di paesi come la Francia, la Germania e la Svezia lo sta a dimostrare.

Lo Stato Sociale, inteso come fattore di sviluppo economico ed aumento della qualità della vita, può incidere rispetto alla dislocazione di nuovi insediamenti produttivi, allo sviluppo economico, alla  valorizzazione professionale, alla formazione di buona occupazione con  diritti e  tutele.

Centrale nell’iniziativa di difesa e miglioramento della Sanità e Assistenza, è l’acquisizione delle risorse necessarie. Bisogna battere la politica della riduzione delle tasse (specie per i ricchi) portata avanti dal Governo Berlusconi. Dobbiamo rilanciare la nostra critica ad una scelta che, a fronte di un minimo ed illusorio taglio delle tasse, comporterà in futuro, per la maggior parte dei cittadini, forti tagli ai servizi e alle prestazioni pubbliche, con maggiori costi per i singoli utenti.

La partita fiscale assume pertanto grande rilevanza nella difesa della Sanità, Assistenza e degli altri servizi e settori pubblici. C’è la necessità di rilanciare la progressività del sistema di imposizione diretta e modificare la struttura della tassazione, in particolare rispetto ai redditi più alti, alle grandi eredità, ai rilevanti patrimoni immobiliari e alle rendite finanziarie. Questo per recuperare le risorse necessarie alla salvaguardia del sistema dei servizi pubblici, e difendere l’attuale Servizio Sanitario Nazionale, finanziato dalla fiscalità generale.

Anche perché Sanità, Scuola, Previdenza, rappresentano ancora oggi in Italia, assieme al Contratto Nazionale di Lavoro, uno dei pochi elementi di solidarietà e unificazione sociale, rispetto a una realtà generale di progressiva divisione e frammentazione.

In questo contesto si inserisce l’attacco del Governo di centrodestra alla Sanità e ad un sistema di assistenza certo e omogeneo a livello nazionale, attraverso la riduzione delle risorse e delle prestazioni pubbliche.

Questo si intreccia con le forti contraddizioni della Legge 328 (Assistenza) e, di conseguenza, della Legge regionale n°1/04, che ne applica gli orientamenti, in cui viene esplicitata l’apertura al mercato dei servizi (cooperative, terzo settore, privato sociale), l’utilizzo di bonus e assegni di cura e nuova centralità della famiglia.

Il taglio dei posti letto e dei piccoli ospedali, che è stato portato avanti anche in Piemonte dalla Giunta regionale, così come i vari ticket (pronto soccorso, farmaci, diagnostica) e l’addizionale Irpef, non hanno portato nessun significativo miglioramento rispetto alle prestazioni sul territorio, ai posti letto per cronici e lungodegenti, alle lunghe liste d’attesa, alla riduzione del deficit.

In Piemonte la Giunta Regionale non ha assunto la scelta privatistica della Regione Lombardia, ma ha predisposto, come per il livello nazionale, attraverso la sottostima delle risorse, e a meccanismi distorsivi di gestione, di accreditamento e di ripartizione dei finanziamenti alle ASL e ASO, scelte che mettono in crisi la reggibilità del sistema e possono spingere settori significativi e più abbienti di cittadini a staccarsi dal SSN e scegliere la sanità privata e le agenzie assicurative.

La Giunta Ghigo ha portato in pochi anni la Regione Piemonte ad avere il più alto saldo passivo di mobilità sanitaria, nessuna progettualità, un aumento enorme della spesa, la mancanza assoluta di controlli, il buco di bilancio e tutti gli scandali che ci hanno posto in primo piano nelle cronache nazionali.

Nella crisi economica che si sta determinando a livello internazionale, sempre più il capitale finanziario sta tentando di acquisire nuovi mercati d’investimento. Il settore dei servizi pubblici con rilevanza sociale è pienamente ricompreso in questa tendenza (aziende municipalizzate, Sanità, Assistenza, Scuola, Previdenza). La Sanità è ormai da tempo nel mirino della deregolamentazione, non solo con la sottostima della spesa, ma anche attraverso la nuova riforma del Titolo V della Costituzione (devoluzione) e conseguente possibile nascita di 21 servizi sanitari separati. Il prospettato  passaggio della sicurezza alimentare dal Ministero della Sanità a quello dell’Agricoltura, l’attacco alla L.626/94 sulla salute e sicurezza sul lavoro, l’attacco alle leggi e politiche ambientali del nostro Paese, completano l’opera di destrutturazione.

La stessa scelta di applicare i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) senza la certezza delle risorse; il trasferimento di prestazioni sanitarie prima a carico della sanità pubblica e ora definite socio-assistenziali, a carico dei Comuni e, conseguentemente, dei cittadini; la non definizione dei LEAS (Livelli Essenziali di Assistenza Sociosanitari); il mancato finanziamento delle prestazioni per i non autosufficienti; la ridefinizione del prontuario farmaceutico, con lo spostamento a pagamento di molti medicinali prima esenti, stanno spostando sugli utenti sempre maggiori costi (30% della spesa sanitaria).

La Giunta Regionale, in questo non facile contesto, si dimostra alquanto schizofrenica.

Da una parte taglia posti, ospedali e servizi, senza un Piano Sanitario Regionale, che viene rinviato alla prossima legislatura, dall’altra promuove la costruzione di 8 nuovi ospedali in varie province e la dislocazione, a Torino, di rilevanti strutture ospedaliere per la costruzione della “Città della Salute” (Molinette, S.Anna, etc..). C’è il pericolo di un nuovo ospedalocentrismo in Piemonte, più negativa della situazione precedente, che risponde più agli interessi della speculazione immobiliare che alla salvaguardia della salute dei cittadini.

Si assiste all’apertura, nella predisposizione delle nuove strutture, ad un forte ruolo partecipativo dei privati, coinvolti nella futura gestione di parte dei servizi, non solo di supporto, ma anche di rilevanza sanitaria (analisi, radiografie…), con convenzioni di lunga durata.

C’è il pericolo della strutturazione di una sanità di eccellenza, gestita in compartecipazione con i privati e a costi elevati, per i settori sociali più abbienti, che toglie risorse, servizi e professionalità agli altri ospedali e alle prestazioni territoriali.

Scelta che sarebbe assai negativa per la salvaguardia della Sanità pubblica, che non può essere da noi condivisa.

Così come, a tutt’oggi, continua ad essere emarginata la scelta di una reale pratica della prevenzione. Come noto, le risorse ad essa destinate sono modeste (solo il 3,5%), mentre, al contrario, le conseguenze della non attuazione di una vera politica di prevenzione porta ad un aumento di patologie gravi e debilitanti e pesanti costi umani ed economici alla società. Come prevenzione non si deve pensare solo alla diagnosi precoce, pur fondamentale, ma anche a quella primaria, cioè alla rimozione delle cause ambientali di malattia: ambiente esterno, lavoro, ambiente familiare.

Vi è oggi la necessità di rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale e le prestazioni socio-assistenziali pubbliche.

Le statistiche denotano che oltre il 70% dei cittadini esprime un giudizio positivo sulla Sanità pubblica. La stragrande maggioranza del personale sanitario (operatori, infermieri, medici, medici di famiglia) è per la difesa e il miglioramento della Sanità e Assistenza pubblica, e lo  dimostra anche attraverso specifiche iniziative di mobilitazione e di lotta.

Per questo è essenziale porre al centro della nostra iniziativa scelte e obiettivi di fondo, chiari e coerenti, sui quali è possibile acquisire un ampio consenso e rilanciare le iniziative di mobilitazione:

Aumento della spesa sanitaria nazionale dall’attuale 6% all’8% del PIL, per raggiungere la media europea e sviluppare nuovi investimenti su prevenzione e tutela della salute.

Costituzione di un effettivo Fondo Sanitario Nazionale, finalizzato, che possa rispondere in modo omogeneo, su tutto il territorio nazionale, ai reali bisogni di tutela della salute dei cittadini.

Predisposizione di un reale Piano Socio-Sanitario Regionale, attraverso la pratica del più ampio confronto e partecipazione democratica di tutte le forze sociali e dei movimenti, con specifici momenti di controllo e verifica allargati, che determini una concreta e condivisa politica di programmazione da parte del Consiglio Regionale, che deve recuperare una nuova centralità sulle politiche della salute in Piemonte.

Abrogazione dei vari tickets e dell’addizionale Irpef.

LEA e LEAS finanziati con risorse certe nazionali, che devono ricomprendere tutte le prestazioni assistenziali necessarie e non i soli livelli minimi.

Superamento dell’ospedalizzazione, che deve avvenire in un quadro di reale potenziamento delle prestazioni territoriali, con la partecipazione ed il consenso delle popolazioni locali.

Blocco delle scelte assunte dalla Regione in merito alla costruzione dei nuovi ospedali, in particolare di Molinette 2, che devono essere ridefinite rispetto all’obiettivo del potenziamento e miglioramento dell’insieme delle prestazioni di tutela della salute sul territorio.

Rilancio della centralità del Distretto nell’ambito dell’intervento socio-sanitario, attraverso l’intreccio dei bisogni dell’utenza, disagio sociale e attività di prevenzione.

Rilancio della partecipazione dei sindaci e delle associazioni sociali presenti sul territorio, nella predisposizione, applicazione e verifica del Piano Socio-Sanitario.

Rafforzamento di una concreta politica di prevenzione, con un effettivo aumento delle risorse  necessarie, atta a sviluppare una reale iniziativa di tutela ambientale e salvaguardia della salute e sicurezza sui posti di lavoro

Rilancio dell’esclusività del rapporto di lavoro dei medici (essenziale per potenziare le prestazioni e ridurre le liste d’attesa); valorizzazione professionale e retributiva del personale non medico; centralità della funzione del medico di famiglia rispetto alla qualificazione della spesa e all’iniziativa di prevenzione delle malattie, specie quelle professionali.

Difesa delle acquisizioni legislative, normative e culturali poste dalla L.180 sulla salute mentale e dalla Legge 194 rispetto all’autodeterminazione della donna; lotta contro la nuova legislazione autoritaria e repressiva del Governo di centrodestra sulle droghe leggere e sostegno delle pratiche di riduzione del danno.

Rilancio della L.328/2000 sull’Assistenza, attraverso il suo concreto finanziamento a livello nazionale e con norme di accreditamento per le prestazioni che salvaguardino la qualità dei servizi, la professionalità degli operatori e il rispetto dei contratti nazionali di lavoro più tutelanti. Contrarietà all’utilizzo dei buoni servizio e degli assegni di cura per i concreti rischi di esternalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici e di riduzione complessiva della qualità delle prestazioni. Forte iniziativa contro gli appalti al massimo ribasso.

No al ruolo delle Fondazioni e alla costituzione di SPA nella gestione dei servizi pubblici, perché con l’introduzione della logica del profitto nelle prestazioni sociali si hanno in prospettiva, più costi per l’utenza e per il SSN, meno qualità nelle prestazioni, riduzione dell’occupazione più tutelata.

No alla logica della “Sanità integrativa”, perché c’è il rischio, alla luce dell’attuale carenza di risorse sanitarie, che questa scelta diventi non integrativa, ma sostitutiva di servizi oggi previsti a totale copertura da parte del Servizio Sanitario Nazionale.

Sostegno alla costituzione di un Fondo Nazionale per la non-autosufficienza, finanziato dalla fiscalità generale, fondo che deve essere pienamente ricompreso nel SSN e che deve rispondere a qualsiasi situazione familiare in cui sia presente un non-autosufficiente.

Vi è la necessità di ripensare, in modo critico, all’utilizzo degli indicatori ISE e ISEE, misuratori della situazione economica familiare, assunti per identificare i beneficiari di una specifica prestazione pubblica. Vi è il rischio, limitando l’utilizzo del servizio pubblico alle sole fasce di cittadini meno abbienti, di escludere settori significativi di popolazione da servizi importanti del SSN. Questo può portare alla rottura dell’universalità del Servizio Sanitario del nostro Paese e favorire il passaggio a forme di sanità privata.

Vi è la necessità di rivedere l’attuale meccanismo dei DRG, previsti per i rimborsi delle prestazioni sanitarie, che privilegia la quantità degli interventi. Questo non significa ritornare ai rimborsi a piè di lista, ma ridefinire un rapporto più positivo tra efficacia-efficienza delle prestazioni sanitarie, l’appropriatezza delle stesse, la qualità della spesa e la salvaguardia della salute dei cittadini.

 

 

SCUOLA E FORMAZIONE PROFESSIONALE

La politica scolastica del governo di centro destra è contrassegnata, pur tra confusioni e contraddizioni, da alcuni intendimenti di fondo: ridurre l'impegno dello Stato nella Scuola, nella Formazione, nell'Università e Ricerca, spingere settori crescenti della popolazione a soddisfare i bisogni di istruzione sul mercato, sostenendo questa tendenza con gli opportuni incentivi: finanziamenti alle scuole private (oltre 1100 milioni euro in due anni), introduzione del credito d’imposta per la frequenza di scuole private, pari a 90 milioni di euro nel triennio, leggi sui buoni scuola. Tali scelte, d'altra parte, sono sostenute da una forte campagna ideologica, centrata sulla "libertà di scelta educativa delle famiglie" che fa leva ed utilizza temi e messaggi propri della cultura cattolica e liberista .

Le scelte politiche dei governi regionali del centro destra hanno operato in questi anni per tradurre operativamente gli orientamenti sopra ricordati.

Sono tre gli ambiti sui quali si è concentrata l’attenzione

Le leggi sui “buoni scuola” ( Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria, Lazio, Calabria, Puglia, Sicilia)

Gli accordi Stato – regioni sull’integrazione tra scuola e Formazione Professionale

Leggi sul diritto allo studio

 

  I buoni scuola

La legge approvata dalla regione Piemonte denominata “Esercizio del diritto alla libera scelta educativa” degli studenti e delle famiglie rappresenta una specie di manifesto ideologico della Giunta Ghigo, è una cambiale contratta in campagna elettorale e onorata, seppure tardivamente, per l’opposizione, soprattutto del movimento degli studenti.

Essa destina 18.075.991,00 € ai 26.287 studenti delle scuole paritarie contro i 410.460 che frequentano le scuole pubbliche.

Sulla carta, possono beneficiarne le famiglie con figli iscritti alle scuole statali e paritarie dell'obbligo scolastico e delle superiori; in realtà, i veri destinatari del buono scuola sono prioritariamente le famiglie che hanno iscritto i propri figli alle scuole private, come riconoscimento delle sole spese d'iscrizione. Il reddito massimo per essere ammessi al beneficio è fissato in € 61.970 (120 milioni delle vecchie £)!

Poiché non è prevista l'introduzione del redditometro, è evidente che gli elusori e gli evasori fiscali beneficiano degli importi maggiori

Beneficiari

Studenti scuole statali: solo 2.500 (pari al 15,7%).

Studenti scuole paritarie (cioè private) 13.466 (84,3% degli aventi diritto)

Le cifre erogate

Ai 2.500 studenti delle scuole pubbliche risultano essere stati erogati complessivamente € 241.750,95 (1,6% del totale)

14.784.130 € (98,4%) sono invece andati a favore dei 13.466 studenti delle scuole paritarie

Importo medio assegnato

Ai 2291 aventi diritto della scuola secondaria superiore statale sono stati assegnati contributi medi di € 86,11;

ai 3.931 studenti delle scuole secondarie superiori paritarie sono stati assegnati contributi medi di € 1.464,08, cioè esattamente 17 volte quello degli omologhi statali!

I dati del primo anno di applicazione della legge rendono evidente l’assoluta e macroscopica ingiustizia perpetrata. Essa risulta ancora maggiore a fronte della complessiva riduzione di risorse operata dal governo verso la scuola pubblica (i trasferimenti dello Stato per le sole spese di funzionamento ordinario delle scuole sono diminuiti del 15%).

Una netta inversione di tendenza in questo campo, non può quindi prescindere dall’abolizione della legge sul buono scuola.

Gli accordi Regioni- Ministero dell’Istruzione sul Biennio integrato e la Formazione Professionale

Il quadro complessivo entro il quale si collocano gli interventi della Regione nel campo della scuola e della Formazione Professionale è costituito, da una parte, dal decentramento in atto già da alcuni anni nel settore della FP (dallo Stato alle Regioni, alle Province), dall'altra dalla riforma Moratti, particolarmente per ciò che concerne il " diritto dovere all'istruzione e alla formazione per almeno 12 anni "

Riforma Moratti. Le Intese Regionali Con l'approvazione della legge 53/03 sono state abrogate le leggi di riforma precedenti: non solo la L. 30/00, ma anche la L. 9/99 sull'obbligo scolastico che aveva lo aveva innalzato provvisoriamente a 9 anni; a 10 anni a regime).

Con questi accordi,  la regione Piemonte prevede, per i giovani in possesso del diploma di scuola media, la possibilità di frequentare corsi di formazione, gestiti dalla Formazione professionale e realizzati tramite accordi anche con le scuole superiori. Tali corsi vengono presentati come aventi "pari dignità" e valore formativo  con l'istruzione superiore: in realtà, essi costituiscono uno dei punti forti del disegno del governo di centro destra di destrutturate la scuola pubblica, creando un canale d'istruzione di serie A ( i Licei) e uno di serie B ( la formazione ed istruzione regionale).  

L'"atto di indirizzo alle Province" della regione Piemonte , del 2 marzo 2004, è la traduzione pratica di queste scelte per il periodo 2004- 2007, con ingenti  risorse stanziate: per la sola provincia di Torino si tratta di oltre 32.000.000 di € .

Che fare?

Già oggi è possibile agire in controtendenza rispetto alle politiche del centro destra, nella prospettiva della costruzione di una politica scolastica alternativa, promuovendo un’azione decisa di contrasto di ogni tentativo delle Regioni di centro destra di dare applicazione al secondo canale regionale  in concorrenza con l'istruzione :

riaffermare la frequenza nella scuola secondaria superiore come strumento fondamentale per la formazione

sviluppare una forte azione di orientamento rivolto alle famiglie ed agli allievi dell'ultimo anno della scuola media, volta ad indirizzare la scelta verso la scuola secondaria superiore pubblica

Cancellare l’accordo Stato regioni sul “biennio integrato”, ed impiegare i fondi relativi per il sostegno all’offerta formativa della scuola secondaria superiore e contro la dispersione, rivolta in particolare alla fascia 14-16 anni

Per la Formazione Professionale regionale occorre  riorganizzare l'offerta formativa verso la fascia dopo i 16 anni, la formazione continua, quella rivolta ai lavoratori  oggetti delle ristrutturazioni aziendali ed agli stranieri .

L'FP Regionale va resa più efficace ed efficiente attraverso  nuove regole  che reintroducano il vincolo del "senza fini di lucro", che era stato eliminato dall'applicazione dell'art.17 della L.196 ( legge Treu ).

Va combattuto l'estendersi del lavoro precario, che nel settore ha ormai raggiunto punte impressionanti (circa il 70% delle attività di insegnamento è svolto  da personale con contratti atipici)

Gli Enti debbono dimostrare di possedere strutture e strumentazioni didattiche adeguate, e debbono garantire che le risorse e le figure professionali impiegate posseggano titoli e capacità adeguate e possano operare all'interno di un rapporto di lavoro continuativo e stabile

Diritto allo Studio 

I 18 milioni di euro dei buoni scuola potrebbero, invece, essere destinati a rifinanziare gli interventi regionali sul diritto allo studio, oggi largamente insufficienti, sia sul versante degli studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado ( libri di testo, trasporti, mense, etc), sia su quello degli studenti universitari:  alloggi, mense, borse di studio).

 

 

   

LAVORO E MERCATO DEL LAVORO

Il governo Berlusconi ha modificato radicalmente le norme più importanti che regolano i rapporti di lavoro, l’orario di lavoro e le modalità della vigilanza sull’applicazione delle norme stesse.

Questi provvedimenti fanno parte di un disegno che si propone di ridurre i diritti collettivi per trasformarli in diritti individuali, per ricondurre il diritto del lavoro a ramo del diritto commerciale.

In questo modo si afferma una condizione di uguaglianza del padrone e del lavoratore, del datore di lavoro e del prestatore di lavoro nel linguaggio delle nuove norme in materia, come soggetti che trattano alla pari sul mercato del lavoro, negando il presupposto che la condizione di lavoratore subordinato determini una condizione sfavorevole di partenza per il lavoratore, quando concorda le condizioni per esercitare la propria prestazione.

L’obiettivo di queste nuove norme era favorire la competitività con la flessibilità del lavoro: il risultato è il declino produttivo e la precarietà sociale. Il valore aggiunto per addetto decresce, cioè il lavoro produce meno ricchezza: in questo contesto la competizione può avvenire solo proseguendo nella corsa verso il basso di tutti i costi, lavoro compreso.

Ma con l’introduzione delle norme previste dal decreto 276/2003, in applicazione della legge 30, si è voluto fare del lavoro un vero e proprio mercato, per cui vendere o prestare, intermediare o somministrare, nel nuovo linguaggio legislativo, la forza lavoro di un essere umano, diventa businnes in sé e per sé: è più importante ottenere valore aggiunto nella intermediazione che non nella produzione. Se il valore aggiunto per addetto decresce, è un risultato, perché aumenteranno le possibilità per lavori precari e sottopagati.

Le nuove norme di legge sull’orario di lavoro, ma anche sul part time, perseguono lo stesso obiettivo, favorendo i contratti individuali e le prestazioni individuali. Teoricamente e concretamente queste norme rendono più difficile organizzare il lavoro con regolarità ed efficacia, ma queste vengono compensate con la debolezza contrattuale dei lavoratori interessati, per cui si possono progressivamente ridurre salari, diritti e condizioni di lavoro.

Per favorire questo processo sono state cambiate anche le norme in materia di vigilanza e controllo del rispetto delle norme di legge da parte delle imprese: se si trasgredisce, si sana senza sanzioni e l’Ispettore del Lavoro diventa Conciliatore del Lavoro.

Per queste ragioni è necessario continuare l’impegno per cambiare radicalmente le nuove norme in materia di lavoro. Per queste ragioni è necessario che le politiche del lavoro delle Regioni, della Regione Piemonte, si propongano l’obiettivo programmatico ed una coerente azione pratica di governo finalizzata alla regolarità ed alla qualificazione professionale. 

Per queste ragioni il nuovo programma di governo in materia deve incentrarsi su alcuni capisaldi di fondo:

deve essere assunta come riferimento fondamentale una politica di intervento pubblico sul mercato del lavoro fondata sul suo governo unitario, per tutte le forme in cui si presentano la domanda e l’offerta di lavoro. I centri per l’impiego rappresentano la struttura fondamentale di questa politica: essi agiscono sul mercato del lavoro in modo gratuito per i lavoratori e per le imprese;

vanno favorite le convenzioni tra Enti Locali ed Istituti Scolastici con i centri per l’impiego;

va rafforzata la competenza in materia di studio e monitoraggio dell’andamento del mercato del lavoro piemontese e dei suoi specifici bacini, in modo da garantire una efficace azione pubblica di orientamento e di intervento sui problemi più gravi ed urgenti

coerentemente, le attività di formazione professionale devono essere indirizzate dalla Regione con l’obiettivo della qualificazione produttiva e del lavoro, escludendo ogni sostegno ad attività formative che non abbiano, come scopo, la regolarità e la stabilità del lavoro;

va combattuta con adeguati provvedimenti amministrativi e con politiche di incentivazione e disincentivazione una frantumazione affaristica delle attività di intermediazione, negando finanziamenti alle agenzie e stabilendo criteri di specializzazione della funzione di intermediazione della agenzia stessa;

anche gli incentivi alle imprese devono essere indirizzati esclusivamente verso le aziende che innovano e si riorganizzano in funzione della qualificazione produttiva;

analogamente, gli incentivi all’occupazione devono essere finalizzati alla stabilità dell’occupazione, sia per le nuove assunzioni, che per la conversione a rapporto di lavoro stabile di quelli precari.

Importante sul mercato del lavoro è il ruolo della Regione, unitamente a tutti gli enti preposti, nella realizzazione delle Grandi Opere e nei cantieri Olimpici, per la garanzia della regolarità e trasparenza degli appalti e subappalti, al rispetto dell’impatto ambientale, delle norme di sicurezza e dei diritti legislativi e contrattuali dei lavoratori, a partire dalla lotta al lavoro nero, per l’emersione e la stabilità dell’occupazione

 

 

RIFIUTI COME RISORSA

La complessità del tema rifiuti è un fatto ormai noto a tutti: dal problema della produzione degli stessi, in continuo aumento, passando per le metodiche di raccolta differenziata, recupero e riciclaggio, attuate solo in parte e non dovunque, allo smaltimento finale con l’incenerimento e la discarica.

Il nodo fondamentale della questione sta proprio nel primo punto, e cioè la produzione.

Allora occorre intervenire proprio su quel punto: ridurre la produzione a monte, concetto espresso dalla Ronchi, dalla legge regionale e dai programmi di province e comuni, ma finora da tutti ampiamente disatteso.

Paradossalmente, in alcuni comuni, pur ottenendo risultati buoni di raccolta differenziata, si assiste all’annullamento degli stessi perché la produzione di rifiuti aumenta nella stessa quantità o addirittura di più.

Secondo nodo determinante sta nel cosa fare dei rifiuti prodotti. E’ davvero coerente l’impegno praticato per ottenere il massimo di recupero in condizioni di sicurezza ambientale e sanitaria?

Si dice “recupero di materia e recupero d’energia”, così ognuno si sente a posto nel proporre un pezzo d’incenerimento per fini energetici, ma è davvero quello il modo di recuperare più energia e di provocare meno emissioni inquinanti?

Il Decreto Ronchi 22/97, che a sua volta recepisce le più importanti direttive europee in materia di rifiuti, allo scopo di introdurre nel nostro paese un moderno sistema di gestione dei rifiuti, si ispira a tre principi fondamentali:

la riduzione della produzione dei rifiuti, obiettivo che riveste carattere di assoluta priorità ed al quale devono essere subordinati sia l’organizzazione delle raccolte che il perseguimento della valorizzazione dei rifiuti prodotti;

il conferimento e la raccolta differenziata dei rifiuti;

la valorizzazione di tutte le frazioni recuperabili.

La nuova legge regionale 24/2002 recepisce nella formulazione questi principi, ma punta, nella sostanza, più alle soluzioni tecnologiche ed all’incenerimento che non all’avvio di pratiche concrete di riduzione e di incentivazione della raccolta differenziata.

Per una maggiore efficacia della riduzione dei rifiuti, occorre che la regione attivi:

la riduzione dei consumi di merci a perdere, incentivando al massimo la loro sostituzione con prodotti riutilizzabili, riparabili e riciclabili;

accordi di programma con le associazioni di ristoratori, dei gestori di pubblici esercizi, dei commercianti, della grande distribuzione, per promuovere la riduzione degli imballaggi, incentivando l’uso di imballaggi a rendere (con la cauzione), premiando i comportamenti virtuosi con un marchio di qualità ambientale;

un inasprimento dei controlli sui conferimenti di rifiuti speciali e assimilabili da parte di piccole imprese industriali, artigiane o commerciali;

maggiori incentivazioni per la realizzazione degli Ecocentri per la raccolta, il recupero e l’eventuale reimmissione sui mercati paralleli dell’usato di una vasta tipologia di prodotti, o di loro componenti ancora utilizzabili.

Per la raccolta differenziata, proponiamo di:

accrescere l’informazione e la sensibilizzazione;

rendere più efficace la raccolta dell’organico, finanziando anche la costruzione degli impianti di compostaggio;

incentivare province e comuni ad adottare il sistema di raccolta  “porta a porta”.  Le esperienze fin qui attuate in numerosi comuni, e anche in intere province, di questo metodo, stanno a indicare un percorso in grado di ottenere risultati ottimali di raccolta differenziata (oltre il 50%, in molti casi fino all80%) a costi minori, grazie ad un meccanismo che diventa sostitutivo della raccolta dell’indifferenziato e non soltanto aggiuntivo, come nel caso dell’utilizzo dei cassonetti stradali;

promuovere la diffusione degli Ecocentri del Riciclo, che non sono solo centri di conferimento, soprattutto per quelle tipologie di materiali non annoverabili tra i più comuni e classificati (lampade al neon, batterie per auto, olio usato, materiali compositi…), ma anche centri di socializzazione, informazione, didattica per le scuole, lavoro di riparazione e recupero, vendita di oggetti usati e riparati…con positivi risvolti anche nel campo occupazionale e formativo;

finanziare la costruzione degli impianti di preselezione, per produrre FOS, inerti, metalli, CDR,

promuovere l’applicazione della tariffa: anche se molti comuni devono applicare la tariffa alla quantità dei rifiuti prodotti in sostituzione dell’attuale tassa a partire dai prossimi anni, è opportuno incominciare a sperimentarla fin da subito, anche solo in zone selezionate, inizialmente, sia per non giungere impreparati alla scadenza fissata, sia perché la tariffa può costituire un ottimo incentivo per il coinvolgimento dei cittadini nella minor produzione di rifiuti e nella raccolta differenziata.

 

Parte residuale

Lo sforzo maggiore (anche economico) dev’essere compiuto per ridurre la produzione dei rifiuti, per la raccolta differenziata, per il recupero e la preselezione della parte indifferenziata. La parte residuale, quindi, calcolabile intorno al 15%, al raggiungimento di risultati già ampiamente sperimentati, può essere così trattata: la parte secca non recuperabile (CDR) può essere inviata ad impianti di termovalorizzazione già esistenti, oppure a linee dedicate annesse ad impianti di produzione termoelettrica o acciaierie o cementifici già esistenti, e la parte rimanente si può collocare in discariche di contenute dimensioni, essendo una parte minima, e non putrescibile, dell’attuale rifiuto indifferenziato prodotto.

 

   

ACQUA: PROBLEMI INTERNAZIONALI E DECISIONI LOCALI.

La situazione. Nel mondo le falde idriche si stanno abbassando per il troppo sfruttamento in vasti territori di India, Cina, Medio oriente, Nord Africa, Stati Uniti. Anche grandi fiumi diventano asciutti ben prima della foce, come il Colorado, il Gange, l'Indu, il fiume Giallo. Grandi laghi, come l’Aral e il Ciad, sono ridotti a superfici minime. La domanda d’acqua è triplicata nel corso degli ultimi decenni e il numero delle dighe alte almeno 15 metri è salito da 15.000 nel ’50 alle 45.000 di oggi. Nel mondo l’acqua è usata per circa il 70% in agricoltura, 22 % nell’industria e 8 % nelle città.  La produttività dell’acqua segue  la scala mondiale della ricchezza: in Bangladesh si ha un Pil di 3 dollari per metro cubo d’acqua, tra i 4 e  i 5 dollari in Egitto e India, 12 in Cina, circa 20 negli Stati Uniti, circa 40 in Francia e Germania.

Il prelievo pro capite è di 42 metri cubi per persona in Etiopia, 70 in Nigeria, 348 in Brasile, 491 in Cina, 578 in Bangladesh, 640 in India, 675 in Francia, 791 in Messico, 1.011 in Egitto, 1.250 in Australia, 1.932 negli Usa. In Africa il 36 % della popolazione non ha accesso all’acqua, il 19% in Asia, il 13 in America latina e Carabi.

I paesi dove vi è mancanza di acqua sono sovente oggetto di mete turistiche: il turismo all’occidentale impone la realizzazione di alberghi o villaggi, che devono essere circondati di verde anche dove vi è difficoltà di irrigazione. In questo modo si consumano enormi quantità di acqua, che vengono sottratte alle attività produttive e alle popolazioni locali.

Le conseguenze sono note: le popolazioni povere d’acqua sono costrette a percorrere lunghi tratti a piedi per rifornirsi, e soprattutto le donne sono obbligate a questa fatica quotidiana.

L’acqua però è spesso inquinata e proprio questo, insieme alla sua scarsità, è una delle cause di mortalità più frequente, sia tra gli adulti, sia soprattutto tra i bambini, per un totale di circa 30 milioni di persone all’anno.

Sovente la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale promuovono la lotta alla fame attraverso l’incremento della maiscoltura e della zootecnia, passando attraverso la realizzazione di dighe per  avere più acqua, soprattutto per l’interesse legato alla realizzazione delle opere. Spesso poi l’acqua raccolta non va alle popolazioni, ma ai campi di golf dei turisti e dei ricchi locali.

In Italia e in Piemonte l’uso dell’acqua è uguale a quello dei paesi sviluppati, anzi, talvolta, si è anche meno attenti che altrove, così l’Italia è il paese della Ue che preleva la più alta quantità d’acqua pro capite di tutta la comunità: 980 m3/ab/anno, il doppio della Grecia e, comunque, più della Spagna ( 890) e della Francia (700), e siamo terzi nel mondo dietro Usa e Canada, e siamo ai primi posti in Europa come rapporto tra acqua prelevata e disponibilità della risorsa (secondi con il 32% dopo il Belgio).  Come altrove, l’indirizzo maggiore è l’agricoltura, tanto che si stima che nel 1999 ben 20.137 milioni di metri cubi siano stati destinati a quest’uso, contro i 7.986 per uso industriale e i 7.940 per uso civile e 5.919 per scopi energetici.

Le politiche regionali per l’acqua

Gli enti locali

A livello di organi istituzionali periferici, si possono assumere decisioni importanti nel senso della difesa del diritto dell’acqua per tutti.

Ato ( Ambiti territoriali ottimali)e politiche tariffarie. La privatizzazione dell’acqua

Regione e province devono promuovere l’indirizzo di gestione dell’acqua in House, come si dice, ovvero direttamente da parte degli Ato, evitando di darla in gestione privata. È necessario prevedere una ricompensa economica per le comunità alpine che tutelano la risorsa nelle sua fase iniziale e che spesso, con gli Ato, hanno avuto una tariffa più alta. Gli Ato devono provvedere al ripristino di una maggiore funzionalità della rete acquedottistica.

Centrali idroelettriche

Sempre più frequentemente giungono richieste di costruzione di centrali idroelettriche nei corsi d’acqua: la motivazione solitamente è quella di produrre energia da fonti rinnovabili o cosiddette “pulite”. In verità si tratta di una attività che promette lauti e remunerativi guadagni ai costruttori e gestori degli impianti, ma che non è ambientalmente compatibile per tutta una serie di motivazioni. Attualmente non esiste una richiesta insoddisfatta di energia in regione, perché entreranno in funzione ben presto 5 nuove centrali termoelettriche.

Le centrali idroelettriche privano i corsi d’acqua della portata, anche con invasi. Con il “Deflusso Minimo Vitale” non viene garantita a sufficienza la sopravvivenza del fiume. Tutto il tratto di fiume, che rimane privato dell’acqua,  “muore” per molti mesi dell’anno.

Le dighe fermano il trasporto solido, così si impoveriscono le coste; molti litorali italiani sono preda di questo fenomeno. Inoltre, l’interruzione del trasporto obbliga il corso d’acqua a ricostituirlo, prelevando materiale dopo lo sbarramento. Così, se vi sono difese spondali o ponti in quel tratto, l’erosione effettuata dal corso d’acqua può provocare lo scalzare le fondamenta delle costruzioni. In caso di piena le une e gli altri potranno così cedere più facilmente.

Le captazioni per l’idroelettrico vanno ad interferire con quelle per altre attività, ad esempio l’agricoltura. Gli enti locali devono seguire politiche che impediscano una proliferazione di queste opere, e prevedere una revisione e una ottimizzazione di quelle esistenti.

 Invasi per l’agricoltura

L’agricoltura è la maggior consumatrice di acqua e ne richiede sempre di più,. Così, per colpa anche della siccità, si chiede la realizzazione di invasi per garantire il prelievo. Tra le coltivazioni, soprattutto il  mais, la maggiore produzione cerealicola piemontese, è un enorme consumatore di acqua, 1000 tonnellate per una di prodotto. Gli invasi significano sconvolgimento di un ambiente fragile e ambientalmente delicato e sovente di pregio, oggetto di turismo.             La vera soluzione non è accumulare più acqua in montagna, ma arrivare alla radice del problema, ovvero passare a sistemi di agricoltura meno idrovori. Gli enti locali devono disincentivare la realizzazione degli invasi e promuovere, con gli altri enti nazionali ed europei, sistemi agricolturali che siano meno esosi di acqua, evitando questo genere di interventi.

 Bealere, fossi

Da molti anni a questa parte si verifica il fenomeno dell’intubazione dei corsi d’acqua secondari, le bealere. Per risparmiare tempo per le pulizie e avere più terreno sfruttabile. In caso di piogge eccessive, si facilitano inondazioni e rotture delle tubazioni. Nonché distruzione degli ecosistemi. Gli enti locali devono operare per fa cessare la realizzazione di queste opere e intervenire per la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua.

  Reti duali

Per non sprecare acqua potabile, gli enti locali devono promuovere la realizzazione di reti duali per utilizzare acqua non potabile per scopi fognari.

Politiche internazionali

La Regione sviluppa una serie di programmi di cooperazione internazionale; nell’ambito di queste iniziative deve diventare prioritaria la scelta di incentivare la realizzazione, nei paesi poveri, di opere che aumentino l’accessibilità all’acqua.

Azioni di informazione  e sensibilizzazione dei cittadini sui temi correlati all’acqua.